Perché sessant’anni di politiche pubbliche e di trasferimenti finanziari (prima nazionali e poi soprattutto comunitari) non sono stati efficaci nella riduzione di un divario generatosi all’indomani dell’avvio del processo di unificazione politica dell’Italia e mai veramente colmatosi? Perché gli sforzi poderosi dei Governi, soprattutto dell’era repubblicana, non hanno saputo immaginare una «diversa politica possibile», un diverso approccio, meno quantitativo e più qualitativo alla “questione meridionale”? Perché all’indomani di una delle più profonde crisi economiche della storia dell’Occidente industrializzato la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno non può essere considerata come un laboratorio, un’area di sperimentazione di un diverso approccio allo sviluppo stesso e alle politiche che devono sostenerlo e promuoverlo?
Sono queste alcune delle domande che suscita il testo L’equivoco del Sud di Carlo Borgomeo, profondo conoscitore delle dinamiche socioeconomiche del Mezzogiorno, esperto di sviluppo locale e di politiche di promozione di imprenditorialità, dal 2009 presidente della Fondazione Con il Sud. Nelle pagine del suo libro, egli parte proprio da una precisa idea di sviluppo, inteso come articolato e complesso processo di costruzione sociale che prevede la mobilitazione di tutte le risorse all’interno di un territorio che, solo in ragione di tale attivazione, può essere pensato come soggetto di sviluppo e non come neutro contenitore.
Quando Borgomeo evoca lo sviluppo, rigetta l’idea che esso possa essere ridotto a mera espansione dei volumi e delle strutture produttive, per abbracciare visioni più ampie e capaci di cogliere lo spessore multidimensionale e la prospettiva di lungo periodo intrinseci al significato stesso del termine. In ciò si avvantaggia anche di una sua peculiare abilità a intrecciare le argomentazioni critiche sulle definizioni e i modelli della teoria economica con le proprie originali riflessioni basate su un vasto repertorio di casi-studio ricavati dalle sue esperienze istituzionali e professionali: un approccio che restituisce a un tempo autorevolezza e freschezza alle sue valutazioni. La sua capacità di osservazione è penetrante e il giudizio mai scontato. È evidente come egli sia alla costante ricerca di alcuni fili rossi che caratterizzano l’inesorabile cronologia dei fallimenti delle politiche di intervento straordinario nel Mezzogiorno: «Non vi è stata una sufficiente elaborazione politica. Tutto si è ridotto alla misurazione e alla denuncia del divario, in una logica elusivamente quantitativa. […] aver assunto la cultura del divario come riferimento nelle politiche per il Sud ha determinato, peraltro, un effetto sociale e politico particolarmente rilevante. Insistere su un obiettivo palesemente troppo ambizioso, per certi versi proibitivo, ha di fatto contribuito a consolidare una vera e propria cultura della dipendenza» (pp. 25-26).
Ripercorrendo le fasi delle politiche repubblicane a sostegno dello sviluppo meridionale a partire dai primi anni Quaranta-Cinquanta, quando maturò l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno (capitoli 2, 3 e 4), sino alla fine dell’intervento straordinario e alla Nuova programmazione ideata da Fabrizio Barca (capitolo 6), Borgomeo non sembra interessato alla ricerca di colpevoli e non indugia in critiche ideologiche dei diversi modelli, ma appare piuttosto seriamente intento a interrogarsi sul significato delle scelte compiute cercando anche di indagare e soppesare le alternative che sarebbero state possibili, non solo in teoria, ma anche nella concretezza già evidente di alcune buone pratiche, sperimentate non senza qualche timidezza (capitolo 7).
Riscoprendo un economista prematuramente scomparso negli anni Cinquanta, Giorgio Ceriani Sebregondi, l’A. mette a fuoco il vero nodo delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno: «lo sviluppo non può che essere “autoctono”, non può, cioè, che partire dalla combinazione dei fattori produttivi presenti in un determinato territorio, come non può non tener conto dei condizionamenti sociali, politici, istituzionali» (p. 51). E ancora: «lo sviluppo […] non consiste nel raggiungimento di un determinato livello, ma è un processo continuo di “espansione quantitativa e qualitativa” […], una politica di sviluppo che non riesca ad essere autosviluppo diviene un’imposizione o un’elargizione gratuita senza seguito. Lo sviluppo di una società non può essere né regalato né imposto» (p. 114). Ceriani Sebregondi parla di uno “sviluppo armonico” capace di tenere insieme valori materiali e immateriali «decisivi per il giudizio, la scelta e l’azione anche economica» (p. 116).
L’A. quindi s’incarica di dimostrare che il ritardo delle aree meridionali certamente rimane ancora oggi una “grande questione”, che chiede di essere trattata con una “forte discontinuità”, a partire in primo luogo dalla valutazione stessa della natura e delle ragioni più profonde di tale ritardo. «Si tratta in sostanza di superare la cultura del divario del PIL come motivazione di fondo, base di riferimento e parametro di misurazione dell’efficacia delle politiche, per affrontare le vere questioni del ritardo del nostro Sud che, specie in alcune aree, è soprattutto in ritardo in termini di comunità, di ruolo delle istituzioni, di infrastrutturazione sociale» (p. 8).
Una tesi molto interessante, recentemente ripresa anche da alcuni storici economici – ad esempio da Emanuele Felice, Perché il Sud è rimasto indietro (il Mulino, Bologna 2013) -, che si fonda su un’interpretazione del divario letta alla luce della teoria del capitale sociale, di cui Robert D. Putnam è esponente di primo piano (cfr La tradizione civica delle Regioni italiane, Mondadori, Milano 1993). Questa si basa sulla consapevolezza che «i problemi del Sud siano gravissimi ma non riferibili esclusivamente – e neppure prevalentemente – al divario del reddito» (p. 98) e che gli strumenti più idonei per rilanciare lo sviluppo non siano riposti nel volume di “risorse finanziarie” anche laddove queste siano state programmate in regime di addizionalità, ossia in quanto somme integrative e aggiuntive a quelle previste dai bilanci degli enti che le ricevono. Tali somme, spesso ingenti, al pari di generici trasferimenti di spesa pubblica, rischiano di rivelarsi «inutili e dannose» (ivi) se non vengono impegnate e concentrate in obiettivi derivanti da una visione strategica.
La questione delle risorse è ancora molto discussa, così come quella dell’efficacia interpretativa del divario delle variabili ascrivibili al capitale sociale, ma il dato incontrovertibile su cui non si può non convenire con Borgomeo è che il divario macroeconomico permane (laddove non si aggrava), e ad esso si aggiunge la crescita della vulnerabilità e del disagio sociale delle aree meridionali: «l’idea che l’accumulazione di capitale, di per sé, inneschi un circolo virtuoso, generando nuovi investimenti, nuovo lavoro e quindi maggiori consumi e nuove produzioni, si è mostrata sbagliata» (p. 99).
Proprio a questo livello, nella natura della relazione tra sviluppo e coesione sociale, l’A. propone di cambiare radicalmente prospettiva: «si tratta di puntare a costruire un meccanismo di sviluppo autopropulsivo e quindi più duraturo, in cui i soggetti locali siano motori dello sviluppo capaci di trovare la migliore combinazione dei fattori produttivi ed i sostegni esterni, quando necessari, non siano chiamati a trasferire sviluppo ma a concorrere a realizzare positivamente quella combinazione» (p. 156).
Alla rassegnazione e alla critica distruttiva (la “psicologia della tomba”, la definirebbe papa Francesco), Borgomeo suggerisce di reagire scommettendo sulla comunità e sui suoi valori, sulla cultura e sull’educazione, sulla legalità sostanziale e sul rispetto delle norme condivise, sulla formazione civica e politica soprattutto delle classi dirigenti, su un ruolo attivo e propositivo del terzo settore. Lo sviluppo è questione di responsabilità, di cura personale, di visione strategica e di fatica quotidiana: «Bisogna scoraggiare un approccio al tema dello sviluppo che faccia sempre e solo parlare della responsabilità altrui, bisogna evitare che tutti siano orientati ad “aspettare” soluzioni costruite altrove; bisogna non consentire mai più a classi dirigenti locali, quando palesemente inadempienti, di trovare alibi e di scaricare altrove le proprie responsabilità» (p. 165).
Tutto ciò passa indubbiamente attraverso una cura e “manutenzione” dei beni comuni, non solo quelli culturali, ambientali e naturalistici, ma persino quelli immateriali come le tradizioni culturali, enogastronomiche, dialettali, musicali, etno-antropologiche. E ciò non può che passare da una cura della partecipazione democratica e da una cultura dell’accoglienza e dell’inclusione praticate nell’autentico dialogo sociale: «appare importante […] che vi siano adeguate iniziative per aumentare le opportunità per la popolazione di partecipare a processi decisionali» (p. 168). Sapendo di aver provocato sino all’ultima pagina anche il lettore più critico a caccia di soluzioni e vie di uscita, Carlo Borgomeo, pur non nascondendo una trepidazione di fondo per il futuro del Mezzogiorno, rilancia alcuni esigenti percorsi di discontinuità radicale nelle politiche pubbliche, «esortando infine le donne e gli uomini del Sud a prendere il coraggio nelle proprie mani, consapevoli che «ormai la responsabilità è, ovviamente, nelle mani di noi meridionali. Non perché dobbiamo riparare ad errori compiuti solo da noi; non perché la situazione attuale è solo colpa nostra. Semplicemente perché, con ogni evidenza, se non c’è una più forte assunzione di responsabilità da parte dei meridionali, non se ne esce» (p. 164)
Fonte: www.aggiornamentisociali.it