Dal Bangladesh all’India. Dai confini col Pakistan in Iran. Turchia, Grecia, e poi Bari. E’ l’odissea di Golap, uno dei giovani, fra una quindicina, che vive in una comunità-alloggio di Bari. Come quasi sempre accade, in occasione dell’approccio ad uno straniero, cerco di approntare frasi sgrammaticate che al massimo fanno uso del soggetto e del verbo, purché ci si comprenda. E invece Golap, non solo mi parla in un italiano accettabilissimo, ma mi spaventa: “conosco nove lingue”.
Le stesse che gli sono servite per arrivare dalla sua città, in Bangladesh, fino a qui, “ma le stesse che per fortuna conoscevo, per aiutare altri miei fratelli, scappati come me”. Lui è arrivato in Italia due anni e otto mesi fa. “Nel mio paese frequentavo l’università, ma dopo la morte di mio padre, per ragioni economiche, ho dovuto lasciare il mio paese e mi sono fermato al secondo anno. Mia madre, purtroppo, non lavorava”. Come sia capitato proprio in Italia, Golap lo spiega sorridendo, nonostante la sua grande impresa: “Un giorno, una guida turistica bengalese che veniva dall’Italia é venuto a casa e mi ha consigliato di venire qui, per lavoro. Cosi ho venduto la mia terra di grano per settemila euro e sono partito con lui e altre dodici persone verso l’lndia, con un pullman”. Smette di sorridere, Golap, e comincia ad accarezzarsi con il pollice il dorso dell’altra mano. “Durante il tragitto, la guida ci ha costretti a consegnargli telefono e soldi, affinché non avremmo avuto problemi con la dogana e che poi ci avrebbe restituito tutto”. Ma, passato il confine, la guida, italiana, “ci ha fatti scendere dal pullman e lui é scappato con i soldi e i telefoni di tutti. Poi, un’altra guida indiana ci ha fatto prendere un altro pullman, fino alla stazione dei treni, dove abbiamo preso un treno e siamo arrivati al confine del Pakistan. Ma non siamo entrati, perché c’erano delle guardie di frontiera. Abbiamo dovuto aspettare sette giorni, prima di poterci entrare”.
Per lunghi sette giorni, Golap e i suoi amici hanno dovuto sopportare le temperature gelide, quelle che provengono dalle cime, fra le più alte del mondo. Hanno dovuto bere acqua, accontentarsi, solo per i primi due giorni, di quel che avevano con loro, nelle loro sacche di fortuna. “Una volta in Pakistan, con un’altra guida pakistana, abbiamo preso altri pullman, per arrivare in lran, dove ci aspettava una guida iraniana. Lì non c’erano solo bengalesi, ma altri gruppi di altri paesi. Siamo diventati circa cinquanta persone, e non c’erano pullman”. E allora, dodici giorni di cammino, per sedici, diciotto, venti ore, senza mai fermarsi. “Durante questo lungo tragitto mi sono fatto male al piede perché le scarpe si erano rotte, e non avendo medicine, ho fatto un laccio con la maglietta e abbiamo proseguito fino al confine delle Turchia. Con una guida turca abbiamo preso altri pullman fino ad arrivare in Grecia dove ci aspettava un capo-guida greco”. Man mano che Golap racconta il suo viaggio, spesso chiude gli occhi, sforzandosi di ricordare un film che vorrebbe cancellare per sempre dalla sua testa. “Dopo dieci giorni di attesa, siamo entrati nel container di una nave e abbiamo fatto un viaggio di quattro giorni, per il porto di Bari. Durante il tragitto, tre piccole barche hanno aperto il container e delle persone si sono buttate in mare per salirci sopra. Mancavano quasi due chilometri”. Arrivati a Bari, l’ennesima guida italiana ha dato a Golap e compagni una casa “per tre giorni, poi ce ne siamo andati”. A Napoli, Golap ha trascorso un giorno, “in stazione, dove ho dormito per una notte. Fino a quando una persona bengalese mi ha offerto ospitalità, mi ha dato da mangiare e da dormire per un giorno. Il giorno dopo mi ha detto di andare dai carabinieri e cosi ho fatto”.
Il racconto di Golap, come di molti altri stranieri, contengono sempre una frase, terribile, atroce, che affonda sempre nella pancia di chi ascolta. Andato in caserma, Golap come chiunque si rivolge a qualsiasi luogo di primo soccorso: “nessuno mi capiva ed io non capivo loro”. Tuttavia, la sua odissea ha una sosta, e dopo essere stato accolto in una casa gestita da religiosi, “a distanza di due anni, eccomi qui a Bari. Al momento sto studiando e faccio l’operatore in una casa famiglia. Ringrazio Allah per avermi fatto conoscere questa comunità religiosa e alcune brave persone. Loro hanno creduto in me”.
Chiedo a Golap come immagina la sua vita fra qualche anno: “Non ci penso. Per ora voglio stare con gli altri, con le persone brave e buone, perché mi distraggono dai brutti e difficili ricordi”.
Fonte: Pubblicato su “la Repubblica” del 27 dicembre 2016 – Link