Corriere del Mezzogiorno (Puglia) 1 Dicembre 2017
Avv. Michele Laforgia
Il quartiere Libertà è, da sempre, il mio quartiere. Abito da cinquant’anni quasi ininterrottamente ai suoi confini, ne ho frequentato le scuole, dalle elementari al Liceo, passando per le medie, e poi, per professione, il Palazzo di Giustizia; senza trascurare i pomeriggi trascorsi, da adolescente, nel Supercinema di via Bovio, per chi se lo ricorda. Conosco bene, quindi le condizioni di vita del quartiere, più volte e da più parti denunciate anche per ragioni di decoro urbano e criminalità diffusa. Anche, dicevo, perché la crisi del Libertà deriva innanzi tutto dalla disgregazione del suo tessuto economico, a iniziare dal commercio, che ha progressivamente marginalizzato un quartiere cresciuto a ridosso del centro urbano e periferico solo per il basso reddito dei suoi residenti.
Non è quindi solo per deformazione professionale che provo sincero fastidio per la riduzione del disagio sociale a questione di sicurezza, se non di ordine pubblico. Anche un intellettuale raffinato come Silvio Suppa, dalle colonne di questo giornale, pensa di rimettere le cose a posto cominciando da chi vive di accattonaggio e furti di strada, arrivando a sostenere che«costoro non possono fruire di garanzie politiche e giuridiche». Mi permetto di dissentire, perché anche «costoro» hanno diritto alle garanzie che lo Stato di diritto assicura a tutti, addirittura anche ai suoi nemici. Il carcere e le espulsioni, del resto, non sono in grado, come per incanto, di restituire ricchezza e a un quartiere che l’ha persa, nè tantomeno di produrre integrazione sociale e benessere dove non c’è.
È vero, è un vecchio difetto della sinistra quello di trattare con sufficienza il problema della microcriminalità, che invece colpisce soprattutto i ceti meno abbienti e meno protetti. Ma è un antico vizio della destra affrontare le crisi sociali con gli arresti e le deportazioni, tanto da far impunemente affermare a una deputata dal cognome ingombrante che per rimettere ordine a Ostia basterebbero “due o tre mesi di mio nonno”, il Duce; un vizio che oggi ha assunto il volto feroce del razzismo e della xenofobia. Che fare, allora? I rimedi, in fondo, sono semplici. Se si vuole invertire la tendenza bisogna investire, sapendo – come dicono tutte le statistiche – che i livelli di scolarizzazione sono inversamente proporzionali al numero dei detenuti: che, oltretutto, costano molto di più.
Facciamo un esempio concreto. Nel cuore del quartiere Libertà esiste un centro di fondamentale importanza per la cultura, l’inclusione sociale, e lo sport. Si chiama Redentore e svolge da sempre un ruolo preziosissimo contro la devianza e l’emarginazione, anche per i tanti stranieri che vivono a Libertà. Don Francesco da tempo chiede sostegno e risorse per le attività del Redentore, che ha bisogno di manutenzione straordinaria e investimenti per rimettere in piedi le attività di formazione, il cinema, le palestre e i campi sportivi. Sono attività redditizie e di enorme impatto su un territorio culturalmente desertificato. È quello che serve, se vogliamo davvero liberare il quartiere dall’illegalità