“Salvami dalla presunzione di sapere tutto,

dall’arroganza di chi non ammette dubbi,

dalla durezza di chi non tollera ritardi,

dal rigore di chi non perdona debolezze,

dall’ipocrisia che salva i principi e uccide le persone.”

(don Tonino Bello)

 

È grande il quartiere “Libertà”, è vitale, è popolato, popoloso e popolare. Chi si aggira a ridosso del centro non può fare a meno di notarlo, di riconoscerlo, di avvertirne grida, odori e sapori, nel bene e nel male. È un quartiere che in trent’anni ha accolto di tutto: migranti, che lo hanno scelto per la posizione strategica e per le tante case sfitte, professionisti che cercavano casa vicino al centro, middle class da sempre stanziata e legata al grande e fiero mercato della Manifattura, e delinquenti che d’accordo con la mala già attiva lo hanno individuato come luogo di partenza per mille imprese.

Il quartiere “Libertà” ora è terra di tutti: di bianchi e di neri, di gente perbene e di delinquenti, di Chiesa e laicità, di mercanti e di compratori. Sul quartiere “Libertà” è facile parlare, per questo ne parlano tutti, addirittura va di moda farlo con disinvoltura e tante volte scherno: sono i baresi per primi ad aver battezzato il neologismo “gente del Libertà”, quasi ad individuare una tipologia umana, una categoria di esseri, una fetta di baresità. Eppure c’è pur sempre la fierezza e l’orgoglio di essere baresi, ovvero, come si sa, gente difficile e diffidente, tutta e di tutti i quartieri.

Il quartiere “Libertà” ora è il mostro sbattuto in prima pagina: il territorio della mala, quello che fa notizia, quello che chiunque abbia necessità di stereotipi stupidi (e sono tanti) addita come il responsabile dei mali della città.

Come in passato è successo al “San Paolo”, e poi a “Japigia” e “Madonnella”: chissà perché non è mai successo con i quartieri ricchi e ipocritamente benestanti.

Ne parliamo con Francesco Preite, direttore dell’Istituto salesiano “Redentore”: è un prete che opera per strada, che porta la veste battesimale per le vie abbandonate dagli altri.

È uno che fa “politica” nel senso più alto del termine, perché ama la polis, ama la gente, ama sporcarsi le mani per il Bene.

Di questi tempi non è una persona scontata: non lo sarebbe mai, ma ora è indispensabile per una lettura integrale e assoluta di un territorio che occorre vedere dal basso e con occhi lucidi, non come chi lo strumentalizza in cambio di una manciata di voti alle prossime elezioni.

 

Carissimo amico, partiamo da lontano o quanto meno dal generico, da ciò di cui ora si parla di più, anzi diciamolo e chiariamolo una volta per tutte: in un quartiere ad alta presenza di migranti, che rapporto c’è tra la criminalità e l’immigrazione? È pura retorica stabilire un nesso o invece è possibile leggere dinamiche da prevenire? E come parlare, in un territorio caldo e bollente, di integrazione?

Un dato è certo: la criminalità utilizza i soggetti marginali perché più facili da manipolare, sostituire e pagare, anche pochi euro. Il nesso c’è, ma non nel senso che togliendo i migranti eliminiamo il problema, come sostiene qualcuno: sarebbe troppo semplicistico, e pure facile. Bisognerebbe capire chi sfrutta chi e come: su questo la mala trae profitti utilizzando i migranti a suo piacimento, ora in traffici illeciti di cui sono la manodopera affamata, ora affittando loro tuguri, ora alzando il tiro incurante della provenienza della gente perché la mafia non conosce colore. Solo quando insieme ai migranti (sempre utili perché spesso giovani, clandestini, dinamici e affamati in tutti i sensi) si “importa” la mafia forestiera, come quella nigeriana che pure sta prendendo piede, allora le famiglie mafiose del territorio fanno consorzio tra loro e lanciano il cartello “fuori i migranti”: in realtà si vuole buttare fuori la concorrenza, non la manodopera. Il problema non è dunque il razzismo che si basa sul colore, sulla pelle, ma la criminalità, che invece non ha colore né pelle né sesso, ed ha grandi capacità di omologazione e integrazione nel male.

 

Allora le polemiche sui migranti e sulla loro “scomodità” non riguardano la società civile?

Su questo c’è una lotta impari, una lotta tra poveri: In tanta disoccupazione e povertà alla fine la lotta è tra ultimi e penultimi, ovvero tra migranti e italiani poveri: il migrante toglie il lavoro (non è vero), il migrante spaccia (non solo lui) e via dicendo, col solo risultato di creare confusione, magari voluta, e di perdere di vista l’obiettivo principale che è l’abbattimento delle povertà, di tutti, e la lotta alla criminalità, tutta. Che infatti germoglia dove non c’è cultura, scuola, lavoro: il “Libertà” ha un alto tasso di disoccupazione e di dispersione scolastica, tanto che le nostre scuole elementari non arrivano a seicento iscritti in un territorio ad altissima natalità, la più alta di Bari, per cui vanno in reggenza, esponendosi al rischio dell’anarchia e della mancanza forte di una dirigenza immediatamente riconoscibile e presente. Alla confusione di una stupida propaganda anti-migratoria si aggiungono, prevalenti, criteri di depotenziamento delle strutture invece del potenziamento… e questo non fa altro che peggiorare le cose.

 

Il rapporto tra criminalità e immigrazione significa dunque sfruttamento ma anche istigazione all’odio… Quale l’aspetto più inquietante?

La criminalità esisteva prima dell’immigrazione e sfruttava la povertà del quartiere, e questo purtroppo non è un dato solo di Bari ma di tutte le grandi città d’Italia. Il problema è che anche tra i migranti si infila nuova criminalità, perché tutto ciò che lo Stato non gestisce e non si prende, se lo prende la mafia… Su questo c’è una componente razzista, perché si insiste e si punta il dito sui presunti interessi italiani perduti: esattamente come accadeva ai tempi del fascismo, in cui la pancia prevaleva sul cuore, e interessi personali e provincialistici prevalevano sulla solidarietà, sull’accoglienza e l’uguaglianza, che pure sono valori democratici e costituzionali. Bisogna stare attenti, perché la memoria ci impone l’impegno, e ci insegna che il razzismo ha un’identità provinciale, legata al contatto di un territorio ristretto con il diverso per pelle, per cultura e per colore.

 

Perché questo atteggiamento “provincialistico” attecchisce in un quartiere che in un passato recente ha dato prova di accoglienza e integrazione con la sua semplicità e con un atteggiamento compatto (si pensi al caso dell’arrivo degli albanesi negli ultimi trenta anni, ormai a pieno titolo presenza tranquilla in questo territorio)?

Si è provinciali quando non si riesce a includere, lasciando venire fuori prepotentemente l’istinto di tenere tutto per sé, di tenerci molto quasi sentendosi mancare il terreno, specie in tempo di crisi. È allora che ciascuno pensa ai suoi interessi e l’altro è nemico. In realtà più si condividono risorse e più si ha comunione e possibilità di ripresa e di rilancio.

 

Dunque i migranti potrebbero essere una risorsa, e lo sono per la malavita, ma la gente normale non lo ha capito… dunque la malavita è più avanti della società civile come pensiero…

Perché è organizzata, noi invece non lo siamo, ognuno va per conto proprio, non abbiamo una progettualità e una speranza condivisa, e diventiamo più permeabili paradossalmente a mentalità mafiose…

 

Però a noi gente civile servono le badanti, le colf, i braccianti per le nostre campagne… se cacciamo i migranti crolla questo mercato a noi così funzionale…

È impossibile arginare il flusso migratorio, questo sia chiaro. Per questo è importante capire come gestirlo, incanalarlo, renderlo positivo, collaborando e chiarendo i rapporti con le terre da cui provengono. Se si arresta il flusso, inevitabilmente aumenta quello clandestino: chi scappa dai lager della Libia scappa comunque! Lo Stato deve mettere il migrante in condizioni di poter chie-dere la cittadinanza e di evitare di diventare un clandestino e un mafioso. È un principio di democrazia oltre che di pratica cristiana evangelica.

 

Ma il “Libertà” è eterogeneo come estrazione sociale….

C’è un sacco di povertà ma ci sono sacche positive di professionalità che non si integrano, per cui una famiglia “normale” manda fuori quartiere il proprio figlio a scuola… Eppure il problema non sono le fa-miglie, tanto meno i bambini, che sono frutto del contesto ambientale da cui provengono… Lo Stato dovrebbe potenziare e garantire la sua presenza attraverso scuole di qualità che attirino tutti e lavorino su tutti in maniera forte e con grande identità di presenza. Attualmente in questo quartiere i due grandi poli del Liceo Classico e del Liceo Socio-pedagogico potrebbero essere valorizzati ulteriormente in progetti di volontariato educativo a favore dei ragazzi del quartiere “Libertà”. Mi riferisco a progetti ASL (Alternanza Scuola Lavoro), di sostegno scolastico, attività culturali e socio-educative. Per il resto, delle tre scuole primarie e delle tre scuole medie (una quarta ha chiuso…), una è in reggenza dirigenziale e le altre sono accorpate in mega-istituti comprensivi. Così la scuola stenta a funzionare per l’eccesiva mole di lavoro dovuta all’accoglienza ed educazione di ragazzi che hanno diritto a maggior aiuto. Dopo la stagione delle stragi a Palermo negli anni Novanta potenziarono le scuole prima di tutto! E lì dove non funziona o non basta la scuola, occorre rinforzare altre agenzie educative, come per esempio la formazione professionale di cui pure ci occupiamo noi salesiani: un ragazzo che sfugge la scuola, lo possiamo recuperare con la formazione professionale, che gli insegnerebbe un mestiere avviandolo ad una prospettiva e situazione di vita diversa.

 

Quando si parla di mafia al “Libertà”, non è possibile dimenticarsi di Florian Mesuti, una delle vittime innocenti di mafia, morto in questa città nell’agosto 2014. Era un albanese…

La vicenda è avvenuta quando il parroco ed io non eravamo in istituto ma ad un convegno. I fatti risalivano a qualche giorno prima: un paio di ragazzini, uno albanese e l’altro figlio di un boss. Avevano litigato per questioni di sport. Gli strascichi tra i due erano continuati e qualche giorno dopo ci fu l’ennesimo diverbio nella piazza antistante. Florian quella sera intervenne in difesa del bambino albanese, peraltro suo amico e parente: forse uno scappellotto o una parola di troppo con l’altro, che prontamente chiama il fratello. Quest’ultimo scende in piazza, forse non vuole ucciderlo perché i referti parlano di un colpo che è rimbalzato… comunque è armato. Florian viene rincorso, colpito vicino al cuore e poi si accascia morente. Poi il black out: la piazza, piena di gente, ancora aperta al traffico, si svuota in un fuggi fuggi generale. Silenzio… Lì dove c’è paura si alimenta la criminalità, ma la radice della criminalità nel nostro quartiere è nella dispersione scolastica e nella mancanza del lavoro: quando non c’è lavoro e non c’è cultura, c’è criminalità organizzata che si sostituisce velocemente e prontamente.

 

Quanta componente di razzismo c’è stata? Se Florian fosse stato un barese o addirittura uno del “Libertà”?

Per scatenare questa reazione c’è un gesto probabilmente aggressivo per cui secondo il codice mafioso doveva essere restituito il torto. Forse non c’era la volontà di uccidere ma di sparare sì, quanto meno di spaventare, magari di gambizzare. Ciò fa emergere la pseudocultura di cui sono impastate le famiglie mafiose e i ragazzi che vi appartengono. Se fosse stato un barese, si sarebbe chiesto a chi appartiene, perché la logica è se appartieni ad un clan. Se fosse stato il figlio di un nessuno qualsiasi, avrebbe probabilmente fatto la stessa fine; se figlio di un clan, la situazione sarebbe cambiata. Il punto nodale non è il razzismo, ma non ricevere sgarri, per cui anche uno scappellotto deve essere lavato con la violenza e il sangue.

 

Chi ha poi ucciso Florian Mesuti arriva armato, sa di essere visto, non ha paura di farsi vedere, ha intenzione di sparare, spara… non ha paura di una pena che scatterà, perché deve dimostrare anche con il carcere che l’onore è salvo.

È il loro codice, se fai loro un affronto rischi la vita.

 

Non hanno paura del carcere…

Ciò definisce la paura e la povertà culturale in senso ampio in cui vivono: uno schiaffo non vale una persona, la sua vita o la sua morte, c’è mancanza valoriale, mancanza di senso e di significato della vita, è difficile smontare una persona che vive in un contesto di codici di questo tipo. Per queste situazioni occorrerebbero comunità educative. Chi è stato coinvolto nell’omicidio Mesuti è stato mandato via dall’oratorio, anche se sono arrivati i parenti e la madre: ho spiegato che l’oratorio non può essere un luogo educativo per casi così gravi, è come dare un’aspirina ad uno che ha un cancro. Occorrono giusti rimedi, e in quel caso occorreva ormai un rimedio netto e più forte, come la comunità educativa. Ovviamente la risposta della famiglia non è stata collaborativa, e la cosa è andata avanti, perché quello è stato un primo episodio: poi c’è stata una rissa allo stadio, poi un tentativo di violenza sessuale, poi l’aggressione alla giornalista Rai Maria Grazia Mazzola. Se lo Stato non interviene, non fa che alimentare la potenza della mala!

 

Perché secondo te non interviene?

Perché ha pochi uomini, pochi mezzi… C’è gente che ha avuto una sentenza di pena in Cassazione per associazione a delinquere di stampo mafioso ed è ancora a piede libero: in un quartiere come il nostro questa cosa non può avvenire, non ce lo possiamo permettere… Sono convinto che non accadrà quello che avvenne nel lontano 1969, quando il primo processo contro Totò Riina fu spostato a Bari e ne produsse l’assoluzione…[1]

 

Perché la parte buona del “Libertà” non si è mossa, non ha preso le distanze, in una sola parola: non partecipa?

C’è una deformazione dell’informazione, voluta, che ha reso il “Libertà” il quartiere su cui appiccicare tutti gli stereotipi negativi. Così fa più notizia… e fa comodo a tutti. In realtà è un quartiere molto bello e vivace, molto vissuto, molto variegato, ma trascurato, con problematiche non risolte che  esplodono nei momenti di crisi. Ci sono molti politici, docenti, magistrati, professionisti che abitano in questo quartiere. Occorre riunire queste forze per avviare il progetto del rilancio. Per ora queste forze non vengono fuori perché spaventate dalla criminalità che si impone, e poi perché si è sottovalutata l’idea di dare un contributo al quartiere, ora più che mai necessario. Urge un tavolo di condivisione con queste potenzialità, peraltro enormi. Un esempio è “Agorà sociale”, un programma di incontri su temi di interesse socio-politico nella ricerca del bene comune, previsto ed attuato, nell’ambito dell’Opera salesiana “Redentore”, dal Laboratorio Don Bosco oggi, che può essere un’occasione per attivare queste energie positive e avviarne la collaborazione per il risanamento e la promozione culturale e sociale del quartiere.

 

Oltre al “Redentore”, che altro?

Le scuole!!! Il primo presidio dello Stato! Vanno salvaguardate… e poi i luoghi ricreativi e formativi. Deve sparire il degrado, anche fisico ed estetico, ed in questo senso è decisivo l’impegno di chi ci governa. Occorre riattivare i motori di questo quartiere, con interventi strutturali più decisi, per cui bisogna intervenire non solo con strumenti di repressione (arriveranno 75 uomini in più su richiesta del Prefetto), ma investire nella prevenzione educativa e nel rilancio delle strutture, da quelle più scontate (si pensi all’importanza dello sport, le cui scuole calcio devono ritornare sul territorio del quartiere) al potenziamento della formazione professionale. È una presenza importante, che toglie i ragazzi per impegnarli altrove. La vitalità e la cittadinanza devono riprendersi il territorio coordinando volontariato e competenze attivate ad hoc. Questo deve diventare un quartiere con centri diurni con educatori professionali, con scuole calcio con animatori laureati in scienze motorie, scuole con docenti selezionati (possibilmente i migliori), occorre pensare al recupero funzionale di alcuni spazi urbanistici anche solo per ripristinare il culto della bellezza in un quartiere dove schizzano i dati relativi a minori sottoposti a procedimenti penali, a genitori e adulti sottoposti ad arresti domiciliari. Se non si dà forza alla parte sana, il quartiere soffoca.

 

I giovani sono l’unico problema, come sempre, e il punto unico di ripartenza?

La questione educativa è legata alla mancanza dei modelli adulti di riferimento, spesso incapaci di formare… Don Bosco diceva che in ogni giovane c’è una corda del bene che l’educatore deve trovare e far vibrare. In un contesto di povertà culturale, valorizzare i punti educativi significa investire sul futuro, contrastare la mala che investe sull’ignoranza proprio dei giovani. Poi occorre pensare al problema lavorativo in un quartiere dove la disoccupazione giovanile, che raggiunge livelli elevatissimi (intorno al 70%), è di per sé stessa un grosso incentivo a delinquere, come mi ha ricordato un giovane del quartiere: – Se lo Stato non mi mette in condizione di lavorare, non posso che “arrangiarmi” -.

 

Peraltro l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro…

Se la situazione è questa, chi ha il potere di cambiare questa situazione è l’istituzione! Il primo passo è il potenziamento della formazione professionale, che è il tassello di congiunzione tra la scuola e il lavoro, l’avviamento al mestiere. Noi ora siamo vincolati ad attivare solo un corso di formazione professionale ogni anno di massimo 20 ragazzi, laddove ne occorrerebbero tanti altri con cui recuperare tanta gente e tanti mestieri… So per certo che chi non viene da noi finisce al carcere minorile, e il recupero di questo soggetto diventa molto più complesso e più costoso, data la sua memoria del male e la difficoltà di reinserimento. Un ragazzo con una formazione professionale è mediamente più forte e preparato per affrontare la vita.

 

Come vivi tu?

È un quartiere che ti provoca, che chiede fede e fiducia. Altrimenti è meglio lasciare. Tanti operatori hanno lasciato, magari laureati in scienze dell’educazione. Tanti sono rimasti, hanno scelto di fare le loro tesi di laurea sull’esperienza dell’oratorio, insom-ma tematizzano il loro lavoro e lo studiano, e spesso sono anche del quartiere, gente che decide di esserci, tra tanta luce e tanta ombra. Il quartiere è popolare, la gente cerca relazioni e questo mi piace, perché ti ferma, ti cerca. Il problema per me non sono i ragazzi o le situazioni estreme che si portano dietro spesso molto forti, quanto gli educatori e la struttura del “Redentore”, grande ed imponente, che va adattata ai tempi di oggi e che deve sempre marciare. Si pensi alla sfida del cineteatro di quartiere che sarebbe una grande opportunità culturale, ma che ora è complesso rilanciare. E poi la mia vita è intrecciata a questo territorio… Per il resto non mi piace fare sempre le stesse cose, e in questo il quartiere mi aiuta: non mi piace standardizzare tutto perché si è sempre fatto così. Non è né evangelico né umano. Occorre piuttosto sempre vedere dove va la storia: si pensi all’esperienza del pub “Lupi & Agnelli” lanciato nell’oratorio, un tentativo di socializzazione e di orientamento lavorativo. Il “Redentore” non appartiene ai preti, appartiene alla gente. Per molti il problema è che il “Redentore” ha acceso i fari, magari abbaglianti, sul quartiere, e questo può dare fastidio.

 

Come ha risposto la comunità ecclesiale?

C’è tanta strada da fare, tanta… Don Tonino Bello diceva che spesso contrapponiamo la liturgia alla carità. La nostra liturgia è nell’oratorio. Occorre più Chiesa che sia ospedale da campo, che curi e lenisca e si sporchi le mani. E poi Bari è così ambivalente… Bari è mercante: occorre capirne l’anima, ritornare a San Nicola, che era di colore, che ha lasciato nel DNA dei baresi il senso dell’accoglienza, spesso soffocato dalla logica dell’interesse. Non sarà il “Redentore” da solo a risolvere i problemi. Però può accendere i fari, e non è poco. Con l’augurio che siano più forti dei fuochi d’artificio che tanti boss ostentano nel quartiere per le loro feste private e non. Con l’aiuto della comunità ed anche delle istituzioni, la gente di Bari deve essere incoraggiata a venire al “Libertà”, deve trovare interesse a venirci, deve esserne attirata. Insieme si può ancora fare.

 

[1] Il 10 giugno 1969 la Corte di Assise di Bari, nonostante le prove schiaccianti, pronunciò 64 sentenze di assoluzione, cancellando le accuse di associazione a delinquere e di omicidio. Nelle 307 pagine di motivazione alla sentenza la Corte non arrivò a non riconoscere l’esistenza della mafia, “perché non può che prenderne atto”, ma mise nero su bianco che “l’equazione mafia uguale associazione a delinquere, sulla quale hanno così a lungo insistito gli inquirenti e sulla quale si è esercitata la capacità dialettica del magistrato istruttore, è priva di apprezzabili conseguenze sul piano processuale”.

 

Francesco Minervini

(minervini_francesco@libero.it)

Fonte: laboratoriodonboscooggi.donboscoalsud.it